Il settimo giorno di Venezia77 si illumina dell’oscurità di Notturno, terzo film italiano in gara nella sezione principale del concorso, ultima fatica di Gianfranco Rosi che qui ha vinto il Leone d’Oro nel 2013 col suo Santo GRA, ultimo italiano ad ottenere l’ambito riconoscimento veneziano.

Il film, durissimo, è stato girato per 3 anni lungo le linee sottili che dividono le zone di guerra da quelle dove si tenta di ricostruire una esistenza degna di essere chiamata tale. Un viaggio nel profondo Medio Oriente, in Iraq, Kurdistan, Siria e Libano, fino ad arrivare al cuore della ferocia suicida/omicida dell’ISIS.

“In Medio Oriente, durante le riprese del film, ho incontrato le persone che vivono nelle zone di guerra. Ho voluto raccontare le storie, i personaggi, oltre il conflitto. Sono rimasto lontano dalla linea del fronte, ma sono andato là dove le persone tentano di ricucire le loro esistenze. Nei luoghi in cui ho filmato giunge l’eco della guerra, se ne sente la presenza opprimente, quel peso tanto gravoso da impedire di proiettarsi nel futuro. Ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno ha dichiarato il regista.

Notturno non è solo un film, ma un pugno dritto in pieno volto. Nella pellicola di Rosi non compare nemmeno una scena di guerra. Ma questa “assenza” non limita affatto la percezione della dimensione del dramma che un conflitto porta con se, gli effetti che ha su chi la guerra non l’ha scelta ma è costretto a subirla. Però la guerra c’è e la sua presenza è negli occhi terrorizzati dei bambini, nella loro incapacità di esprimersi a parole, nelle litanie luttuose delle madri che hanno perso i loro figli che si mescolano alla voce di un cantore di strada che intona una lode all’Altissimo, le città che vivono forsennatamente anche di notte, alcuni malati psichiatrici che mettono su una rappresentazione teatrale per esorcizzare quelle scelte politiche che determinano la loro vita: storie diverse che riescono a trovare una magica unità lungo i sentieri della narrazione che va al di là delle aree e delle divisioni geografiche, facendosi universale. Di fatti Rosi non spiega mai dove sono state girate le scene che vediamo, proprio per evitare ogni riferimento geografico e razziale, politico.

Tutto intorno a queste storie la visione dei segni della distruzione e della violenza lasciano percepire perfettamente come questa violenza marchi l’animo: un notturno che è il buio degli esterni e dei luoghi scuri privi di ogni luce. Ma il regista mette in primo piano l’umanità, quella che si desta ogni mattino alle luci dell’alba lasciandosi alle spalle il notturno dell’inferno, sperando che il buio sia per sempre dilaniato dalla luce, ma è invece un notturno infinito.

Rosi ha trascorso 3 anni ad incontrare persone e storie, occhi e animi, stabilendo prima un contatto per poi riuscire a filmare, perché non bastava immortalare con gli occhi, ma era necessario farlo col cuore. Molte scene, infatti, sono esteticamente perfette, come se l'immagine assoggettasse a se la natura del racconto, la verità della rappresentazione. E questa è la critica più frequente rivolta a film e regia. In realtà dietro questa accurata scelta non c'è una risposta di mera armonia visiva, ma la volontà del regista di restituire a noi la stessa forza e lo stesso splendore di quei soggetti che lo avevano così affascinato. Come una dichiarazione di affetto verso quelle persone e quelle storie fatte arrivare fino a noi attraverso il potere delle immagini e non quello delle parole.

Un’esperienza senza dubbio forte quella vissuta da Rosi che ci restituisce con ogni vibrazione avvertita dal suo animo in quei luoghi. E alla domanda, difficile, “Cosa le resta di quella lunga esperienza?” il regista risponde: “Quando sono tornato a casa non ero più la stessa persona, non so se sono cambiato in meglio o in peggio ma sicuramente provavo uno stress post traumatico. Ho provato un profondo senso di amore verso le persone che ho incontrato. Spero che il pubblico colga il senso di vita e di profondità dei personaggi, che si crei una corrispondenza e identificazione con loro come è successo a me. Senza conoscere la lingua e quelle storie, ho avuto una grande identificazione. Il film nasce dove si interrompe la notizia da consumare, la breaking news. Ho voluto raccontare qualcosa di più intimo per far emergere al massimo la forza dei personaggi, la loro forza emotiva. Mi resta il senso di sospensione del futuro. Nel primo piano del bambino Ali nel film e la domanda su che futuro avrà, si legge un futuro sospeso che è quello che stiamo vivendo in questo momento”.

Eppure, in questo film documentario, senza storia ma con mille storie che rimangono negli occhi e nell’animo degli spettatori, non c’è pietismo o retorica perché l’eccellenza lavorativa di Rosi, a tutti gli effetti il miglior documentarista italiano, si palesa nella capacità di evadere in ogni scena della pellicola la pornografia del dolore, che purtroppo riempie le tv della quotidianità sino ai più moderni mezzi social.

Notturno è film, documentario, racconto, ma anche una sorta di diario di un viaggiatore che ha voluto condividere la meraviglia delle esperienze vissute, il fascino dei luoghi visitati e la storia delle persone incontrate. Come un moderno Marco Polo che nel suo Il Milione raccontò la bellezza dell'Oriente coi suoi paesaggi e della sua popolazione. E Venezia è il luogo giusto per far incontrare Polo e Rosi.

Per pubblico e critica Notturno è già Leone d’Oro. Vedremo sabato se la giuria presieduta dalla divina Blanchett sarà dello stesso parere.


Altro lungometraggio in concorso di ieri è Laila in Haifa dell’israeliano Amos Gitai. Il film è un’istantanea sul mondo contemporaneo dove le diversità, di genere, religione, colore, creano un strappo che porta odio e distruzione, che non lascia spazio a speranze di unione e solidarietà.

Ma la pellicola di Gitai vuole essere la dimostrazione di come le diversità possano convivere “senza necessariamente uccidersi o distruggere” l’un l’altro, ed è l’arte ad offrire un piano di incontro per espressioni di differenti identità. La pellicola si gioca tutta nel tempo di una notte, in un'ambientazione tutta interna. I luoghi sono Haifa, città israelita e natale del regista, e il Fattoush, locale il cui nome riprende quello di un contorno della cucina mediorientale in cui si amalgamano sapori molto diversi tra loro creando una speciale armonia al palato. Il luogo giusto dove unire elementi diversi. Così il questo pub diventa, come dichiara il regista, “rifugio per le persone più disperate: uomini e donne, etero e gay, ebrei e arabi, radicali e moderati”, universi apparentemente molto distanti tra loro che riescono ad unire le loro solitudini nel buio della notte, parlandosi ed ascoltandosi. Il cuore del locale è Laila, una donna affascinante e vibrante il cui nome in ebreo vuol dire notte. E come il manto della notte avvolge a se altre cinque donne che con lei lavorano: le loro storie e le loro relazioni personali si uniranno sfidando ogni categoria e classificazione.

La macchina da presa si muove sinuosa tra gli avventori del locale, tra le diverse sonorità delle lingue parlate e restituisce l'immagine di persone libere e svincolate da preconcetti. Ma è solo apparenza perchè è l'impossibilità di superare le lacerazioni più profonde, come quelle razziali e sessuali, che alla fine vien fuori.

Ma il Fattoush per il regista diventa l’ultimo baluardo dove palestinesi e israeliani riescono ad incontrarsi non per combattersi ma per imparare una pacifica convivenza: le diversità si incontrano e si scontrano, creando momenti di amalgama e picchi di opposizione, ma tutto giocato sul piano della vita e mai della morte.

Il film inizia con un piano sequenza che insegue un uomo alla guida della sua auto. E’ notte. L’uomo viene rapinato e brutalmente malmenato: si tratta di un fotografo e attivista israeliano. Viene accompagnato all’interno del Fattoush: lì sta per inaugurarsi la sua personale mostra fotografica. Questa tensione, che apre la pellicola e che è molto ben rappresentata, accompagnerà solo una parte della narrazione che via via darà spazio a tanti personaggi e alle loro storie che ruoteranno tra loro come in un girone spesso confuso che assorbe nelle sue spire forza ed energia, rendendo così la pellicola a tratti noiosa e stereotipata. Tanti temi, troppi che pur avendo le migliori intenzioni rischiano di rimanere una babele di lingue poi difficili da identificare e comprendere, in cui i temi non riescono poi ad essere ben valorizzati, ma penalizzati da una poco sommessa confusione.

Occasione persa. Peccato!


"I miei amici erano preoccupati che ricevessi il Leone insieme a Tilda Swinton, che è molto più bella di me. Per fortuna le cerimonie sono distinte".


Ha esordito così la regista cinese Ann Hui alla cerimonia di consegna del Leone d’Oro alla Carriera, con l'autoironia che solo le grandi persone possono avere.

"Una delle registe più apprezzate, prolifiche e versatili del continente asiatico, la cui carriera copre quattro decenni e attraversa tutti i generi cinematografici. Da subito riconosciuta come una delle figure cardine della cosiddetta Hong Kong New Wave (movimento cinematografico che tra la fine degli anni Settanta e gli Ottanta rivoluzionò il cinema hongkonghese) ha diretto film di generi molto diversi", queste le parole che ha espresso per lei il direttore Alberto Barbera.

Dopo aver ritirato il premio, è stata la volta della presentazione della sua ultima opera Di Yi Lu Xiang - Love after Love, nella categoria Fuori Concorso. Il film è l’adattamento del primo racconto pubblicato di Zhang Ailing (Eileen Chang) e porta sullo schermo la storia della giovane Ge Weilong che viaggia da Shanghai a Hong Kong per completare la propria istruzione. Per potersi pagare gli studi chiede aiuto alla zia, la signora Liang. La ragazza non tarderà a scoprire che la zia conduce una vita piuttosto equivoca. A poco a poco Weilong diventa però una marionetta nelle mani della donna, che la coinvolge nell’adescamento di uomini ricchi e potenti, finché la giovane non viene attratta dal playboy George Qiao. Ma lo scopo dell'uomo è quello di sposare una ragazza ricca per mantenere il proprio stile di vita lussuoso.

In merito la Hui la dichiarato "Mi piace la trama, perché è la storia feroce di un ambiente confuso e ipocrita a Hong Kong, poco prima della Seconda guerra mondiale. Qui, un mondo tropicale e primitivo indossa abiti eleganti ed eccentrici, mentre le emozioni e le relazioni più melodrammatiche sono espresse in modo diretto, come se fossero normali. Ho voluto dare voce a questo ambiente unico, invece di dirigere un’altra sofisticata storia d’amore". Uno sguardo nostalgico alla Hong Kong degli anni 40 ma che, differenza di ciò che si era immaginato, ha poco a che vedere con la situazione politica attuale, come affermato dalla stessa regista "Quello che penso della situazione politica di oggi non è entrato direttamente nel film e non posso commentare troppo questa dimensione politica perché c'è un investitore cinese nel film e il film ha passato la censura in Cina con pochissimi tagli. Quello che succedeva con la rivoluzione degli ombrelli mentre giravamo è entrato in qualche modo nel clima del film ma con leggerezza, soprattutto per come i giovani si opponevano al sistema".


Il rapporto tra il cinema a la guerra è al centro della pellicola Guerra e Pace dei registi Massimo D'Anolfi e Martina Parenti, presentato per la Sezione Orizzonti. Un racconto di più di 100 anni in cui guerra e cinema si sono incontrati. Quattro capitoli – passato remoto, passato prossimo, presente e futuro – che ricostruiscono una memoria visiva dai primi del Novecento ad oggi grazie a materiale d'archivio conservato da quattro grandi istituzioni come l'Istituto Luce di Roma, l'Unità di Crisi del Ministero degli Esteri Italiano, l'Ecpda (l' Archivio Militare e Agenzia delle Immagini del Ministero della Difesa Francese) e la Croce Rossa Internazionale. La pellicola ci restituisce anche un interessante studio sulle politiche diplomatiche che furono alla base delle missioni italiane e internazionali, ma anche un omaggio al cinema che diventa fautore di guerra perchè utilizzato spesso come propaganda e pace per la sua attitudine alla conservazione del materiale. Guerra e pace si interroga sulle conseguenze della guerra, sul senso della storia e della conservazione della memoria a beneficio delle future generazioni.

Due i film Fuori Concorso degni di nota.

In una proiezione speciale è stato presentato l’italiano Fuoco Sacro di Antonio Castaldo.

E non c’è luogo migliore per la proiezione di una pellicola che parla di fuoco e del lavoro straordinario dei Vigili del Fuoco se non Venezia, una città che col fuoco si è dovuta spesso confrontare. Come non ricordare quella notte del 26 gennaio 1996 quando il Gran Teatro La Fenice andrò distrutto divorato dalle fiamme di un incendio che non diede scampo. Negli occhi di tutti il buio di quella notte rischiarata a giorno da fuoco e le ombre dei Vigili del Fuoco che arrampicandosi sui tetti con indefessa dedizione rischiarono la vita per salvare Venezia che pareva non avere scampo. Su tutti Alfio Pini e la sua esperienza, grazie alla quale benissimo che quella sera le fiamme avrebbero potuto portar via la città intera.

Siamo abituati a vederli nelle situazioni di emergenza, fronteggiare catastrofi di ogni genere e natura, dominare acqua, aria, fuoco e terra con vocazione e un forte senso del dovere.

Fuoco Sacro diventa così il racconto di 50 anni di storia del nostro paese che di situazioni di emergenza ne ha viste tante, troppe per mano dell’uomo: dalla disgrazia della diga del Vojont del lontano 1963, fino ai terremoti del Molise e dell’Abbruzzo, fino alla recente assurda tragedia del crollo del Ponte Morandi.

Ed è una storia raccontata dalla voce e soprattutto dagli occhi di chi queste situazioni le combatte in prima linea, un viaggio nei loro ricordi e nelle loro emozioni. Antonio Castaldo, regista napoletano e prima ancora anch’egli Vigile del Fuoco, ha dichiarato come “La storia dei Vigili del Fuoco è profondamente legata alla storia italiana. Le ansie, le difficoltà e i rischi che l’Italia ha corso nel suo tormentato cammino hanno segnato in profondità e a lungo la memoria collettiva. Ed è in queste ferite, in questi drammi, che ha potuto risplendere la straordinaria generosità di chi ha scelto di fare della propria vita una missione per gli altri. Con Fuoco Sacro ho voluto onorare tutti quegli uomini e quelle donne che con amore e competenza hanno fatto diventare il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco un’eccellenza italiana riconosciuta in tutto il mondo”.

Un film, un documentario, un viaggio emozionale, un faro per illuminare il loro eroismo.


Narciso em Férias dei registi Renato Terra e Ricardo Calilè un viaggio nei ricordi del cantautore brasiliano Caetano Veloso arrestato dalla dittatura militare in Brasile nel 1968 a seguito dell'approvazione della Legge Istituzionale n. 5, ribattezzata in seguito AI-5, a seguito della quale furono sospese numerose garanzie costituzionali e furono conferiti poteri speciali al governo militare: fu l’inizio della fase più violenta e repressiva del regime. L'accusa che fu rivolta a Veloso fu quella di aver alterato l'inno nazionale e sostenute alcune contro il governo. Passarono da quel giorno 54 giorni. 

In quei 54 giorni il cantautore vive la prova più dura della sua vita. "Attraverso un ritratto intimo e dettagliato dei giorni trascorsi in isolamento, egli ricorda e interpreta le canzoni che segnarono il periodo della sua incarcerazione, oltre a ripercorrere le vicende dolorose vissute e condivise con altri detenuti, come l’amico Gilberto Gil, che fu arrestato lo stesso giorno. Caetano fornisce nuove informazioni ricevute dal regime dittatoriale in merito alle ragioni della sua detenzione, rivelando l’opinione della dittatura nei suoi confronti e gettando luce sulla brutalità arbitraria che caratterizzò quel capitolo della storia brasiliana".

Le immagini del cantautore seduto su una sedia con intorno solo il vuoto di una stanza dalle pareti di cemento diventano il fulcro della pellicola, con momenti di stasi si alternano a sequenze ironiche e commoventi.

Narciso ém Ferias è il racconto di un momento cruciale della vita di un uomo e di un paese intero, ed un terribile esempio di riaffermazione della schiavitù.


A domani con il Giorno 8 di questa Venezia 77.