La Serenissima ha sempre avuto un rapporto molto stretto, suo malgrado, con la morte.

Nei secoli la Repubblica di Venezia ha affrontato ben 4 epidemia di peste: la prima nel 1348 che vide la perdita di circa 40 mila cittadini, la seconda nel 1423 dove si calcola morissero all’incirca 50 persone al giorno, poi quella che devastò la città tra il 1575 e il 1577 durante la quale a perdere la vita furono circa 50 mila abitanti, ed infine quella del 1630 che pure vide la scomparsa di 50 mila veneziani.

Tutte morti che si aggiungevano a quelle avvenute per cause naturali o per le malattie fino allora conosciute.

Ma è possibile leggere il rapporto che la Serenissima aveva con la morte anche delle numerose esecuzioni capitali che avevano luogo tra la Colonna di San Marco e quella di San Teodoro: il governo veneziano era assai spietato e il rispetto della giustizia era cosa assai seria. Non bastava molto perché un malfattore perdesse la vita con una gogna pubblica all’ombra del Palazzo Ducale, dinanzi allo strepitoso scenario del Bacino di San Marco.

I morti trovavano sepoltura in principio sotto i sagrati delle chiese, quelli illustri all’interno dei monumentali edifici sacri della città, fino ad arrivare all’istituzione di un vero cimitero all’Isola di San Michele per volere di Napoleone Bonaparte.

Ma quale era il modo dei veneziani di salutare i cari estinti?

Beh, la Serenissima è sempre stata la patria dell’opulenza e quindi anche i funerali diventavano cerimonie sfarzose, ma che riuscivano anche a dare benefici alle popolazioni più povere.


I riti funebri dei veneziani

Requisito fondamentale per i funerali veneziani era spettacolarità!

I riti funebri veneziani non sono sempre stati sfarzosi, ma questo modo di fare si diffuse dal Rinascimento in poi. Di certo non era una forma di esaltazione della morte, quanto piuttosto una maniera di rendere omaggio a chi in vita si era speso per il bene comune e quindi degno di un ultimo saluto che coinvolgesse gran parte della città. Di fatti questa tipologia di riti erano di solito celebrate per nobili o personaggi abbienti che appartenevano ad una delle Schole della Venezia della Serenissima, e che quindi in vita si erano distinti per elargizioni ed opere di bene. Ma le donazioni erano protagoniste anche nel giorno del funerale, quando si era soliti preparare, nelle cucine della Schola a cui apparteneva il caro estinto, pietanze che poi venivano offerte alla popolazione più povera. Di solito si preparavano grandi quantità di fave che si pensava fossero legate al mondo dell'aldilà: e per questo che il giorno 2 Novembre in cui si commemorano i defunti, a Venezia si preparano le fave dei morti, dolcetti saporiti e coloranti che vengono da un'antica tradizione.

Le funzioni funebri di solito si svolgevano di notte: era nell'oscurità delle ore notturne che il defunto, vestito con i sontuosi abiti della Schola, lasciava la sua terrena dimora alla volta della chiesa dove si sarebbe celebrato poi il rito religioso al mattino seguente, e dove con molta probabilità sarebbe stato sepolto.

Uno stuolo di familiari, amici, conoscenti, esponenti della Repubblica e rappresentanti della Schola formava il folto corteo che alla luce dei lumi che reggevano accompagnavano il defunto nel suo ultimo viaggio.

Questo corteo, lungo e sommesso che si muoveva sinuosamente e silenziosamente nelle calli di una notturna Venezia, esponeva il corpo del caro estinto agli occhi indiscreti e curiosi di tutta la popolazione, e non tutti avevano considerazioni benevole, perchè si può anche fare del bene nella vita ma qualche nemico sempre lo si avrà. Il defunto, quindi, non era sistemato in una cassa chiusa ma su un cataletto aperto e quindi completamente esposto alla vista pubblica in tutto il suo sontuoso abbigliamento adeguato alla sua posizione sociale. Il funerale diventava così una sorta di impegno pubblico per il defunto dal quale egli non poteva sottrarsi nemmeno da morto.

Giunto a destinazione la salma veniva sistemata su un catafalco spesso sormontato da un baldacchino decorato in una chiesa riccamente addobbata: fiori freschi e vivi che si contrapponevano al nero dei drappi posizionati un po' ovunque. A questi si aggiungevano anche immagini piuttosto macabre che volevano simboleggiare la caducità della vita e il suo scorrere inesorabile, come teschi, falci e orologi che battevano spietati il tempo.

Queste grandiose onoranze erano tanto sfarzose quanto più il rango del defunto lo richiedeva: alcuni procuratori di San Marco ad esempio potevano riceve riti funebri molto simili a quelli riservati ai Dogi.

Ma in realtà funerali così opulenti non erano ad appannaggio esclusivo di nobili e esponenti del ceto bene della società, ma era sufficiente essere danarosi: bastava un buon conto in banca per ricevere un estremo saluto degno di un doge, ma era importante lasciar indicazioni scritte precise, altrimenti si rischiava che i familiari eredi preferissero tenere per loro la somma di danaro necessaria alla funzione. Ma in realtà era necessario lasciare disposizioni anche se si preferiva lasciare questo mondo in maniera sobria.

Insomma era sempre meglio decidere in vita ciò che si desiderava da morti.


I funerali del Doge

Morto un Doge se ne fa un altro!

Già, perchè un Doge non faceva in tempo a passar a miglior vita che subito si pensava al suo successore.

La morte del Doge era annunciata dal Cavalier del Dose che con le parole:

"Serenissimo Principe, il Serenissimo d'immortal memoria è passato da questa a miglior vita, compianto da tutti gli ordini per le sue rare e singolari virtù. Presento a Vostra Signoria il regio sigillo dell'Erario per comando degli Eccellentissimi familiari e per dover del mio umilissimo ministro."

A queste parole il Consigliere più anziano che prendeva il ruolo di Vicedoge rispondeva in questo modo

"Con molto dispiacere avemo inteso la morte del Serenissimo Principe di tanta pietà e bontà, però ne faremo un altro."

La perdita del Serenissimo capo di Stato inaugurava un periodo di interregno che doveva seguire dei rituali ben precisi che passavano per i riti funebri sino alla vigilia di una nuova elezione.

Il posto del Doge in questo periodo di sede vacante era preso dalla Signoria. Questa, una volta insediatasi, si affrettava, secondo riti secolari, a distruggere quelli che erano i sigilli e i simboli del Doge deceduto: si infrangeva l'anello ducale dell'Erario e i sigilli di piombo che recavano lo stemmo dogale. Questa distruzione dei simboli del potere aveva un significato simbolico duplice: da un lato si voleva sottolineare l'avvenuta separazione tra il dogado considerato eterno e l'uomo terreno ed effimero che ne era stato titolare e rappresentante per un periodo; dall'altro era un modo per evitare che qualche familiare potesse avanzare ambizioni di successioni, non permesse dalla legge della Repubblica.

Dopo questo rito, il corpo del Doge veniva liberato di tutti gli organi interni, lavato e preparato per l'imbalsamazione che avrebbe assicurato la salma all'eternità.

Veniva poi sontuosamente abbigliato con stoffe d'oro: abito, mantello e corno dogale a coprire il capo. Si passava a sistemarlo su un cataletto, ricoperto anch'esso da un lenzuolo aureo, accanto agli attributi militari sistemati però al contrario: gli speroni calzati al rovescio, il manico della spada rivolto verso il basso e lo scudo con l'effige del Leone di San Marco girato verso l'interno. Era un modo questo per sottolineare che con la morte era venuta meno qualsiasi autorità dogale.

Così sistemata la salma del Doge un cospicuo numero di arsenalotti accuratamente scelti la trasportavano nella Sala del Piovego con una lunga processione di preti, servitori, marinai, scudieri e patrizi. Erano esclusi i familiari che dovevano affrettarsi a lasciare le stanze dei Palazzo Ducale. Solo dopo che il Doge aveva raggiunto questa sala si poteva annunciarne la morte alla città: le campane di San Marco venivano fatte suonare doppie per ben 9 volte, tante quante le congregazione ecclesiali.

Da quel momento partiva un periodo di 3 giorni in cui la salma era vegliata da un gruppo di 22 patrizi scelti dalla Signoria. Questo gruppo scelto non recavano segni di lutto ma indossavano una lunga veste di rosso scarlatto. Questa scelta era molto importante in termini simbolici perchè era la testimonianza che seppur "è moro il Dose non è morta la Signoria", e quindi lo Stato della Serenissima sarebbe andato avanti senza alcun impedimento: un chiaro messaggio che la vita andava avanti, quella dei singoli come quella della Repubblica.

Trascorsi i 3 giorni era il momento del rito funebre cristiano. Il Doge lasciava il Palazzo Ducale alla volta della chiesa che egli aveva scelto, e tutte le campane della città all'unisono intonavano il suono della morte. Era il momento in cui Venezia tutta si fermava, si sospendevano tutte le attività, si chiudevano negozi e botteghe.

Il corteo era corposo e sontuoso e seguiva regole molto precise per la sua composizione. Gli alfieri muniti di stendardi erano in testa, seguiti dai rappresentati delle Schole piccole delle sei Schole grandi. Seguivano poi le nove congregazioni religiose, i comandadori in veste bianca, gli scudieri in nero, il Collegio di San Marco e quello patriarcale che intonavano il Miserere. Si aggiungevano poi i rappresentanti della Schola di appartenenza del Doge, i servitori e i marinai.

Seguiva poi il feretro coperto da un grosso baldacchino e sorretto dagli arsenalotti, seguito dai 22 patrizi della Signoria, dal Patriarca e dagli ambasciatori. Chiudeva il corteo la folla, il popolo che accompagnava il suo Doge nell'ultimo viaggio.

Questo lungo corto faceva il giro della Piazza e dinanzi alla Basilica si fermava e il feretro veniva innalzato per 9 volte, tante quante erano le congregazioni religiose: era un modo di rimarcare l'autorità del Doge sulla Chiesa veneziana e per invocare in sua memoria la misericordia divina. Da lì poi si dirigeva in chiesa.

Giunti in chiesa, sfarzosamente addobbata, dopo che il Patriarca aveva officiato la funzione in cui venivano più volte rimarcare le qualità del defunto, la salma veniva sistemata nell'urna sepolcrale, vera e propria opera d'arte marmorea: è per questo che in quasi tutte le chiese di Venezia c'è la salma di un Doge.

Dopo il rito, quando la folla si era ormai dispersa, si udiva suonare la marangona del Campanile di San Marco: la campana che annunciava la riunione del Maggior Consiglio.

Morto un Doge occorreva eleggerne uno nuovo. Subito!